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-Sui Silenzi e sulla capacità di lasciarsi andare-

Bisognerebbe imparare a fare lunghi silenzi, prima di parlare.

E poi esprimersi attraverso piccole frasi, senza fretta, fermandosi.

Per permettersi di sentire, pensare e intuire ciò che si sta dicendo e come lo si sta dicendo. Non per controllarlo in modo perfezionistico o ossessivo, ma per scegliere dentro di noi le parole, come un pittore sceglie la sfumatura giusta di colore per il suo quadro. Affinché l'Altro non diventi il contenitore indifferenziato per qualsiasi nostra sensazione, per qualsiasi nostra emozione, per qualsiasi nostro pensiero. Affinché l'Altro non diventi il contenitore di un nostro vomitare senza controllo.

Questo mito del "lasciarsi andare" come idea del fare, del dire, dell'agire qualsiasi cosa si pensa o si senta, sta diventando simile al mito di Polifemo: uomo/mostro che avendo un occhio solo ed essendo “gigante”, non vede bene l'altro e, inflazionato dai suoi bisogni, è capace di mangiare, uccidere, divorare l'altro, senza pietà, solo per le sue necessità, non vedendo Nessuno.

Lasciarsi andare vuol dire permettersi di sentire pienamente le proprie sensazioni, emozioni, pensieri: conoscerSi ma non necessariamente agirli, utilizzarli, muoverli verso l'esterno. Lasciarsi andare vuol dire vedere Sé stessi che è l'elemento fondamentale per vedere bene l'altro: perché conoscendo tutti gli aspetti di Sé si può riconoscere in Sé l'Umanità e, dunque, l'imperfezione, l'errore, ma anche la tenerezza, la compassione e la comprensione. La comprensione nel senso di prendere con Sé tutti gli aspetti dell'umano: dal peggiore e il più abietto, al migliore e più elevato.

E solo così che nella mia Umanità riscopro quella dell'Altro. E il dolore e le difficoltà che vuol dire, alcune volte, viverla: dunque, talvolta, proteggerla, parafrasando A. Merini, "scegliendo con cura le parole da non dire".


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