L'altalena emotiva della maternità
Alcune settimane fa, ad uno dei numerosi appuntamenti cinematografici del festival "Gli Stati della Mente - Festival di Arte e Cultura", è stato proiettato il film " E ORA PARLIAMO DI KEVIN": toccante, duro, difficile, cruento,non tanto nelle immagini in sè, ma nella capacità di riportare lo spettatore all'interno dell'altalena emotiva vissuta da questa famiglia, da Eva (la madre) e da Kevin (il figlio). E' un film difficile da digerire, e ancora di più è complesso riuscire a ricondurre alla parola il vissuto che smuove tale pellicola: durante la presentazione Elisabetta Marchiori, psichiatra e psicoanalista, aveva affermato "in questo film ognuno vedrà qualcosa che risuona in Sé"
TRAMA:
Eva Khatchadourian, una donna armeno-americana, ha messo da parte tutte le sue ambizioni professionali per mettere al mondo un figlio, lasciando, dopo le richieste del marito, la città per vivere in provincia. Dalla nascita di Kevin la sua vita cambia radicalmente e, tra madre e figlio, si crea subito un rapporto conflittuale. Mentre con il padre Kevin si dimostra un bambino "tranquillo", con la madre continua a piangere, passando dal provocatorio mutismo infantile fino alla ribellione adolescenziale agli ordini della madre. Qualche giorno prima di compiere sedici anni, Kevin compie con un arco una strage nella scuola che frequenta. Mentre Kevin è in carcere, Eva è costretta ad abbandonare il suo quartiere, passando gli anni seguenti nel senso di colpa, interrogandosi sulle proprie responsabilità e vivendo l'odio dei parenti delle vittime.
Questo film tratta un tema davvero scottante, spesso impensabile, sicuramente non accettabile non solo all'interno della società, ma, soprattutto, nella mente delle famiglie, di noi tutti: una maternità non voluta. Dare alla luce un figlio e poi, fondamentalmente, pentirsene per poi vivere imperituramente con un senso di colpa divorante.
Un film che inizia con il rosso e finisce con il rosso: il sangue, la violenza, la passione, non quella carnale, ma la sofferenza e l'agonia che hanno portato alla crocifissione di Cristo per espiare i peccati dell'uomo. Non a caso la protagonista di chiama Eva, che compiendo il peccato originale sarà costretta ad espirarlo con sofferenza per tutta la vita, così come la madre di questo film sente di dover espiare la sua colpa. La colpa di non riuscire a sentirsi madre e di non sapere come relazionarsi a suo figlio.
E il blu: è blu la stanza in cui kevin nasce; è blu il colore dei vestiti che spesso indossano lui e la madre; è blu il colore che predomina nel carcere, è blu il colore della tristezza, della malinconia, del dolore, della solitudine, della depressione. Cosa succede se una donna mette al mondo un figlio e poi si rende conto di non volerlo, di non sentirsi capace di prendersene cura, di averlo concepito ma che, infondo, poi era meglio non averlo mai fatto? Emerge immediatamente una difficoltà nella sintonizzazione affettiva tra madre e bambino: questa madre vede il figlio, appena nato, come un alieno, come una cosa che quasi non gli appartiene.
In una serie di immagini in cui il bambino piange, Eva, nonostante gli innumerevoli sforzi, ha un viso rigido, depresso, teso e le è impossibile poter trovare uno spazio di accoglienza dentro di Sé che le permette di Vedere questa nuova presenza nella sua vita. In questa dinamica è evidente quanto giochi un ruolo fondamentale la presenza ( in questo caso assenza) di un compagno, del padre. Il padre, il terzo, non è fondamentale solo per il figlio, ma lo è sicuramente anche per la madre: una neo-mamma ha bisogno di essere sostenuta in primis dal neo-papà che se nelle prime fasi dello sviluppo del piccolo ha un ruolo importantissimo nel supportare la propria compagna, assumerà nel corso degli anni di vita del bambino, un ruolo essenziale per la sua crescita. Ruolo di presenza non solo fisico, ma un affiancamento emotivo, empatico, verso le sue difficoltà, che vengono, invece, nel film declassate con "basta cullarlo un po' è così buono": questo fa sentire Eva, una madre ancora più incapace e alienata di quanto già non viva internamente. Un padre che vive nell'immagine "ideale" che ha della famiglia e che non coglie i segnali reali, i sintomi, emotivi e comportamentali nè di Eva nè del figlio Questo sarà il light motiv di tutto il film: nessuno riconosce, nemmeno Eva stessa, quanto per questa donna possa essere difficile, disturbante, caotico, doloroso ciò che sta vivendo. E a quel punto lei diventa aliena: aliena dalla società, aliena dalla visione del materno come gioia, amore incondizionato e calore, aliena in un mondo che non accetta la possibilità di vissuti negativi nei confronti della maternità. E come fa un alieno a trovare delle parole in un mondo che sembra non parlare la sua lingua? in un mondo che non sembra proprio avere un linguaggio per il suo vissuto? E allora iniziano i sensi di colpa, la solitudine profonda: questi, forse, nella relazione madre bambino diventano armi ancora peggiore dell'impossibilità di sintonizzazione affettiva con il bambino, poiché non danno modo di trovare una strada per rendersi responsabili (abili a rispondere) a ciò che si sta vivendo, ma mettono la coppia in una situazione di scacco: il bambino diventa un despota onnipotente che, adirato da questo mancato affetto (che certamente coglie), rende impossibile la vita a questa madre, da cui desidera profondamente uno sguardo amorevole incondizionato che, essendo assente, scatena al tempo stesso un odio e un dolore così profondo che lo spingono a volerla distruggere. E questa madre, rea di non aver mai amato questo figlio, si sente come impossibilitata a poter mettere un limite, a mostrare aggressività consapevole verso questo essere: è impensabile odiare il proprio figlio. Questo scatena La colpa: come se non ponendogli limiti, cercando di non ferirlo "consapevolmente", lei cercasse di espiare una colpa di un non amore. Perché è questo che le rimanda la società, è questo che le rimanda il marito che, innamorato dell'idea di famiglia, non vuole vedere e sentire ciò che sta accadendo realmente: nega qualsiasi vissuto della donna, dicendole che ha bisogno di farsi aiutare, ma non prestandole minimamente il suo aiuto/sostegno/comprensione, attraverso un empatia con le sue difficoltà, ma sottolineandole, con quella frase, che "il problema è lei". In realtà in questa coppia disfunzionale "madre/bambino" non c'è causa individuabile, non c'è colpa, poiché non si ha colpa di ciò che si sente ma, eventualmente, di ciò che si fa con ciò che si sente: in questa coppia la difficoltà risiede proprio nella relazione. Una relazione in scacco, una relazione in cui questo bambino, come spesso accade con i bambini, diventa estremamente sensibili ai vissuti interni del materno e della famiglia: questo bambino, in seguito poi ragazzo, incarna tutta l'aggressività e l'ostilità latente di questa donna, di questa famiglia, in cui o la si nega con meccanismi illusori oppure la si cerca di reprimere in qualsiasi altro modo. Si dice che ognuno di noi trovi un ruolo nella propria famiglia: questo ragazzo, particolarmente sensibile alle dinamiche familiari, incarna, inconsapevolmente, il ruolo della carnefice di una madre, unico bersaglio forse perché proprio l'unica in grado paradossalmente di poterlo comprendere, che diventa vittima di ogni sua aggressione. Ed ella cerca di espiare una colpa di cui non ha colpa: non riuscire ad amare il proprio figlio "incondizionatamente". Con questa colpa, con questo enorme senso di inadeguatezza, per lei è impossibile guadare, vedere, riconoscere il figlio, sia nel bene che nel male: anzi è come se avesse bisogno di essere riconosciuta come madre da lui, visto che non si sente una buona madre. Ma spesso i bambini sono capaci di riflettere le nostre più profonde inadeguatezze e lui, come Eva, fa fatica ad adeguarsi a questo ruolo: lo odia, la odia e le dimostra di saper fare le cose ma di non volerle fare proprio per non esserle compiacente, poiché non vede in lei nessuno spazio di accoglienza, di sincero legame. Questo odio, quest'aggressività è l'altro elemento che spesso cerchiamo di non pensare, non guardare dei bambini: la capacità di essere cattivi, ostili e di compiere azioni maligne. E' ovvio che tutto questo abbia una motivazione alle spalle, ad esempio in questo caso un disconoscimento totale da parte della madre, e del padre, fin dall'infanzia, un "abituarsi a lui senza che però a lei questo piaccia", ma ciò non vuol dire che queste azioni non esistano o che debbano essere minimizzate perché i bambini, in fondo, "sono tutti i buoni". Questo impedisce un chiara comprensione ed emersione di un conflitto esistente: come nella scena in cui il padre lo "giustifica" dopo aver imbrattato con il colore tutta le mure della stanza "privata" della madre, dicendo che lo ha fatto perché gli voleva dare una mano a renderla "speciale", minimizzando tutta la sua aggressività e, di fatto, non vedendolo neanche lui minimamente. A volte questa difficoltà di rendere una cosa pensabile e, dunque, dicibile crea enormi vuoti in cui i sentimenti, le paure, la rabbia, le situazioni crescono come all'interno di un buco nero: il non detto agisce inconsapevolmente, creando danni, a volte, irreparabili. E' difficile da dire, anche da pensare: i sentimenti non possono essere obbligati o determinati da una volontà ferrea. I sentimenti SONO sentimenti: allora è necessario avere un sostegno per elaborarli, per uscire da questo circolo vizioso in cui o si è vittime o si è carnefici. Ed è paradossale poi, quanto questa coppia madre figlio disfunzionale, alla fine, sembra essere l'unica che realmente si riconosce implicitamente: ma l'impossibilità di essere visti e riconosciuti completamente fa si che entrambi sviluppino e si creino un falso sè. La donna interpretando il ruolo di madre di famiglia ( che non sente come proprio) e il figlio interpretando il ruolo di bravo ragazzo e bambino con tutti, tranne che con la madre: nessuno coglie i loro segnali, o forse, nessuno li vuole notare. Nessuno li coglie, tranne Eva e Kevin che purtroppo, come spesso accade, da soli non riescono/non possono gestirli così vengono lasciate entrambi in mondi che sembrano incomunicabili. Poi nasce la sorella: a mio parere l'elemento scatenante, la goccia che fa traboccare il vaso. Con lei questa madre sembra trovare maggiore sintonizzazione, con lei Eva riesce a sentirsi madre: questa bambina finalmente le sorride, la ringrazia, le riconosce di poter essere una buona madre, le rispecchia e le ripara tutte le sue paure. C'è un amore madre/bambina. Il vissuto di Kevin, allora, non è più il solo vissuto di figlio ma si contrappone ad un'altra presenza, in questo caso, amabile: dunque, non sono i figli il problema, ma è proprio lui. E allora trova un modo per far avere su di Sè le attenzioni, per farsi vedere: trova un modo estremo, evidente, inequivocabile, disturbante, terribile, praticamente impossibile da non notare. Perché in Tv cosa guardano le persone: gli eventi scioccanti, quelli che fanno notizia e Kevin dice "tutte queste persone cosa Guardano: PERSONE COME ME!" Compie una strage. Uccide il padre, uccide la sorella. La madre, "guarda caso", è l'unica che "si salva" che lui decide di mantenere in "vita": una vita che sarà fatta, per entrambi, di condanna,di espiazione, di dolore, di sofferenza, di silenzi, di vuoti, di "passione". E in tutto questo percorso di carcere e di espiazione la madre, Eva, continua perpetuamente ad andare dal figlio, a non "abbandonarlo" nonostante tutto: sarà per la colpa, sarà per il dolore, sarà per la solitudine, ma Eva rimane presente. E forse è proprio questa presenza nonostante tutto, questa distanza in cui ognuno può "pensare" e "pensarsi" che, infine, ci si può trovare: in uno sguardo, in un'istante, ci si vede e infine ci si può abbracciare. Eva riesce probabilmente ad allegerirsi della colpa che sente quando, domandando il Perchè a Kevin, lui ammette che pensava di essere sicuro del motivo, ma che adesso non lo è più così tanto: dichiara, dunque, che non è Eva il perché, alleggerendola della sua "responsabilità/colpa". Con questa semplice domanda, chiara e diretta, si evidenzia una richiesta attraverso la quale la madre, per la prima volta, cerca di comprenderlo, di capirlo: il figlio, Kevin, nota il suo sguardo, si sente visto e scoperto ed allora può essere diverso, può sentire che infondo entrambi hanno avuto lo stesso vissuto di incompresi e che non c'è una colpa in questa relazione, non c'è una causa. Ma purtroppo, in tutta questa altalena emotiva, questo si è potuto raggiungere solo dopo un lunghissimo periodo di espiazione e di estrema ostilità, in cui è possibile dire che i sentimenti, forse, non hanno colpa ma che è necessario comprendere che quando nasce un figlio, nasce anche una madre che, come un figlio, non lo sa fare dall'inizio: che è necessario imparare, che è importante poter imparare ad essere genitori insieme. E che, a volte, l'amore non nasce subito perché, forse, ci sono esperienze interne più grandi. E di questo, ahimè, nessuno ne ha colpa. Forse, però, non ci si deve nemmeno semplicemente "abituare" o "sminuire", ma si può elaborare, lavorare, imparare ad essere genitori insieme. Attraverso un percorso di riconoscimento dei vissuti, che potrà essere dolorosa e, dunque, necessita di un sostegno adeguato al momento adeguato, ma che, probabilmente, ci può salvare da un'espiazione e un senso di colpa persecutorio. Perché come dice il titolo originale del film "We need to talk about Kevin", cioè "C'è Bisogno di parlare di Kevin".